Sudan

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29 settembre è una bella data per inaugurare la stagione sudanese. Grandi le possibilità di divertirsi a Mesharifa con le mante. Alta la probabilità di incontrarle per quanto vicini siamo ancora all’estate… Le più belle immersioni del North nell'itinerario "ONE WAY": Angarosh, Merlo, Abington, Rumi, Sanganeb, Umbria

sabato 23 febbraio 2013

Vieni via con me per un giro in giro, Nurajet il pozzo e i graffiti


E' un diario lungo, esageratamente lungo, per portarti davvero con me. Se non hai tempo o pazienza, verrai un'altra volta......oppure clicca solo su di una foto, ingrandiscila e guarda anche le altre a seguire.......




Il desiderio di partire alle volte ti afferra ed è incontenibile. Un’inquietudine, un’insofferenza, un vuoto da colmare.

Urge solitudine, 

silenzio,

 risposte. 

Ed andare diventa inevitabile.
 




Casualmente avevo letto una relazione di un viaggio intrapreso da due studiosi, ed ecco l’occasione per una breve esplorazione via terra.

Krzysztof Pluskota, archeologo polacco, e Arita Baaijens, scrittrice e viaggiatrice tedesca avevano comprato, nel 1997, 3 dromedari ed  avevano cominciato la loro esplorazione partendo da ed-Damer sul Nilo , 220km a nord di Khartoum. Obbiettivo: raggiungere il Villaggio di Mohamed Qol sul Mare Rosso. Desideravano  attraversare zone normalmente non percorribili con veicoli e incontrare nomadi. La distanza era di 530 km circa che divennero in realtà 900, dovendo aggirare montagne e inserire nell’itinerario i pozzi per rifornirsi d’acqua. Durante il loro peregrinare scoprirono in una valle, un wadi, casualmente, un gran numero di graffiti in un’area chiamata Nurajet, nelle vicinanze della montagna chiamata Magardi.

Le foto dell’articolo che avevo trovato non erano un gran che, in bianco e nero, ma la montagna sembrava ugualmente molto  suggestiva: si ergeva e dominava solitaria, totemica  in un grande spazio aperto. Forse Magardi non era poi così lontana.  La rintracciai prendendo le coordinate GPS al computer attraverso l’immagine satellitare. Un piccolo punto che a mano a mano ingrandito, diventava sempre più nero, inaccessibile e misterioso.Sembrava chiamasse come un eco. Individuai  i 2 pozzi davanti alla montagna sul versante Nord. Tutto il resto venne da solo come anelli di catena: inviai a Dungonab ad Isa, il mio amico beja, la foto della montagna e di alcuni graffiti, perché raccogliesse notizie, soprattutto se qualcuno  vi fosse passato. In un paio di giorni la risposta: Mohammed, autista di camion, la conosceva bene. Quindi fissammo un appuntamento per domenica sera 17 febbraio, a Dungonab. Il villaggio si trova a 150 km circa da  P.Sudan, così intanto mi sarei portata un pezzo avanti verso Nord. 
Isa mi avrebbe ospitato senza difficoltà nella piccola casa in legno in riva al mare.
 Il camion doveva avere il pieno di nafta e qualche bidone di riserva, un paio di bidoni d’acqua, io avrei portato le provviste. All’alba del lunedì avremmo caricato viveri e coperte e saremmo partiti. 
Così è stato.

Marsa Kor Shin'ab
Dopo 50 km circa di strada asfaltata in direzione Nord, curvammo a ponente, più o meno all’altezza del fiordo di Abu Imama, mentre le tenere luci dell’alba stemperavano l’orizzonte sul mare. Al salire del sole si precisavano lentamente i contorni delle montagne davanti a noi e sembravano un cordone inaccessibile. Di passaggio in passaggio, di valle in valle, ovvero di wadi in wadi, abbiamo proseguito aggirando colline, più o meno elevati costoni e rocce solitarie. 
 

In un acquarello monotono e allo stesso tempo ricco di sfumature si susseguivano pareti brune, nere, rosse e dorate, costoni di pallida sabbia, cumuli, franate. 
Mano a mano che il sole saliva pareva tutto brillare e sbiancarsi, la lontananza dietro ai profili era perfettamente turchese, il cielo terso di un azzurro pallido purissimo. Le valli tra le rupi, tutte uguali e in qualche modo differenti,  erano punteggiate di acacie che via via si facevano più grandi, alte e svettanti, con larghi tronchi forti e bruni, come ombrelli nel sole accecante, dalla trama fitta e delicata, proiettavano uniche rade ombre rotonde.
 Per la prima volta ho visto un grande avvoltoio, ma l’autista per timore di insabbiarsi, non si volle fermare e proseguimmo in direzione opposta al suo volo.

Dopo 7 ore di scossoni è apparso all’orizzonte il picco solitario e familiare che aspettavo.

 

Dopo un’altra ora il camion ha risalito un costone ripido e si è affacciato all’improvviso su di una valletta piena di fitte capanne di stuoie racchiuse come in un cucchiaio. 


Dopo un’altra manciata di minuti, ero muta davanti al pozzo: il pozzo di Bir Nurajet.


Come avessi corso per tutte quelle ore sfiorando tutto e niente, ero giunta.

Ed ero immobile li, calma nel silenzio perfetto.

Il silenzio, un silenzio che è un ronzio nelle orecchie e tanto più si fa silenzio, tanto più ti ascolti.

Nessun odore, l’aria secca asciutta e bruciante.

Ascolta



 I graffiti di Nurajet
"il pomodoro..." parte seconda                                            


Ecco  il pozzo di Nurajet. Sono le tre del pomeriggio, lentamente la luce si ammorbidisce e si fa meno abbagliante, svelando nuove sfumature e contrasti. I dromedari che pascolano liberi intorno alla montagna di Magardi, vedendo figure umane accanto al pozzo, si avvicinano assetati.
Aggiriamo la montagna sul lato Sud, in cerca di un posto dove fermarci per la notte. Intanto che Mohamed, l’autista, prepara le stuoie e il fuoco di legna, facciamo un primo sopraluogo nel Wadi a Sud ovest della valle.
Il sole tramonta di fronte a noi, siamo in controluce, le ombre sulle pendici che stiamo percorrendo via via ingrandiscono mentre Isa, come una gazzella, s’inerpica sempre un passo avanti, anche lui è entusiasta. Risuona il suo eco: ena! Cristina, giai giai ! Vieni vieni, qui e qui….
I graffiti sono numerosi, ogni masso ha il suo ornamento. Le pendici della montagna sono franose, molte rocce si sono distaccate e scivolate a valle, sicuramente il paesaggio è sconvolto da quello originario. Rimandiamo la nostra passeggiata al mattino del giorno dopo con luce favorevole e torniamo al camion. La sabbia è calda, pulita, e l’aria sta già rinfrescando, la notte sarà fredda. Isa comincia a preparare la nostra cena, nella pentola sulla brace di legna d’acacia soffrigge la cipolla per una zuppa di lenticchie. Una volta pronta la rovescia nel grande piatto comune ed intingiamo a turno il pane, gustando ogni boccone dal sapore ineguagliato dell’essere dove siamo, di avere qualcosa di caldo per fronteggiare fame, stanchezza e freddo, mentre le montagne si elevano nella notte. Il coro dei grilli è diventato il silenzio, tanto sonoro e costante che alla fine non lo sento più.

La luna rischiara il deserto di sabbia attorno a noi fino alle una lasciando luogo, al suo declino, ad una coperta di stelle. Sono così fitte e splendenti da poterle toccare. Ogni tanto mi sveglio, completamente rappresa nel sacco a pelo, mi affaccio ed apro gli occhi: la bellezza della volta da vertigine e la terra pare un disco roteante . 

Un richiamo di dromedario, uno sbuffo di vento tra i cespugli scandiscono le ore del buio... Alla mattina le tracce della volpe arrivano alla brace del nostro fuoco spento. Mohamed dice di averla vista verso le quattro aggirarsi tra le nostre cose.

Il battere del pestello nel mortaio annuncia, con i preparativi del caffè, l’alba . I chicchi vengono prima abbrustoliti, poi pestati, poi messi al fuoco nel panciuto recipiente di latta. Presto sale il profumo. C’è anche del the e dei biscotti secchi. La luce è ancora tenue e siamo già in cammino. Magardi si staglia contro il cielo, nel paesaggio della grande valle è una presenza  imperativa e severa, da respiro al passato, induce l’immaginazione e provoca visioni. Siamo perfettamente pronti ad accogliere emozioni.

ingresso del Wadi "bab Sawakin"
Attraversiamo un canale prima della catena di montagne, dove scorre l’acqua nella stagione delle piogge, dove ora cresce rigogliosa una cintura di verde, acacie e cespugli. L’aria è piena di cinguettii e richiami. Dromedari appaiono all’improvviso, le teste bucano i cespugli e si affacciano allarmati al nostro passaggio. Attraversiamo un pianoro di limo pallido, che  ha formato mattonelle croccanti sotto i nostri passi; tronchi e rami sparsi, traccia dello scorrere violento 

dell’acqua, ora tutto asciutto e secco.  Entriamo alla porta di roccia che abbiamo battezzato per la sua sagoma bab Sawakin, in tutto simile alla porta della cittadina a Sud di P.Sudan.

Cominciamo ad arrampicarci fra le rocce. Appaiono mandrie di bufali dalle lunghissime corna, singoli fieri maschi e femmine fertili caratterizzate dalle grandi mammelle, dromedari e struzzi. Sono innumerevoli, a volte nascosti o raggiungibili con difficoltà, abitano senza dubbio la montagna. Gli stili sono diversi, alcuni sono abbozzati, grezzi o primitivi, altri sono rifiniti, bellissimi, eleganti . Alcuni sono sovrapposti in epoche diverse. Cerchiamo figure umane che troviamo a volte sul dorso di un dromedario, attaccati alla coda al seguito di una mandria o in atteggiamento di combattimento. Perlustriamo il costone più a sud, poi quello di fronte, anch’esso ornato anche se i graffiti qui sono più radi. Alcune tombe mussulmane su un rilievo in fondo al wadi, rivolte a levante, dominano la vallata. Non ho quasi tempo di ascoltare l’emozione tanto sono contenta, mi lascio fluire con ciò che ho attorno, seguo il ciclo del sole e mi faccio occhi e sensi abbracciata alla macchina fotografica, il cavalletto a monopiede diventa il mio bastone da cammino.

Verso mezzogiorno , ci rifugiamo all’ombra del lorry nel nostro piccolo accampamento. Trovo pronto per me un recipiente col becco con l’acqua fresca per la doccia. Sembra impossibile, ma è vero: nel caldo torrido dell’acqua fresca. Il serbatoio è sotto la pancia del camion, la notte è stata fredda e la temperatura si è mantenuta.

Isa affetta carote, pomodori, cipolla e formaggio nella ciotola comune. Con fare prezioso aggiunge dell’olio di oliva per un’insalata. Gustiamo un boccone dopo l’altro intingendo il pane, lentamente, chiacchierando, un po’ in arabo, un pò in beja, un po’ a gesti della nostra mattina. Mai altro pomodoro potrà eguagliare questo sapore.



La valle misteriosa
"la volpe", parte terza......

Il nuovo mattino porta con se inattese sorprese. Ci dirigiamo più a nord del nostro primo wadi dei graffiti. Scorgiamo un passaggio tra le rocce che pare un ingresso ed accediamo ad un avvallamento protetto. L’avevo intravvisto anche il pomeriggio precedente, inondato di sole in raggi radenti, mi era sembrata una conca d’oro. Oggi la luce è ben diffusa, qualche acacia, una quasi illusione di verde in fili d’erba e foglioline, segno di piogge non lontane. Pare un anfiteatro naturale, sarà lunga duecento metri, le rocce che limitano inaccessibili il lato sud, per un arco quasi di 180°, sono tutte ornate da grandi mandrie. I graffiti sono ovunque. Rivolgendo lo sguardo al passaggio d’ingresso appare di fronte, incombente più che mai allusiva la montagna. Guardo i graffiti…….torno con lo sguardo a Magardi…. Sovrasta, simbolica: emerge dalla terra come da una ferita, si eleva dominando la valle, probabile allegoria di fertilità e abbondanza. La conca è veramente ben protetta e a fronte di Magardi: è così ben difendibile, leggermente sopraelevata, immune dalle inondazioni durante le piogge, che non posso non sentire una certa sacralità sospesa. Una pausa e un’attesa. Non sono in grado di determinare se possa essere la base di un insediamento, oppure un luogo esclusivamente mistico. Ma viene inevitabile di camminare cautamente, con passi leggeri, gli occhi bassi tra le schegge di pietra e i ciottoli colorati, perché siamo sicuri di camminare sul passato e sorge il dubbio che a scavare si scoprirebbe altra storia.

Dietro uno sperone si apre un passaggio quasi una via di fuga, s’insinua fra le gole per un altrove.

Si respira una atmosfera rigogliosa, di una valle fertile dai pascoli verdeggianti, un luogo fortunato da tempo immemorabile. Anche oggi, che l’inaridimento e la desertificazione l’ha stretta d’assedio, fa pensare ad un piccolo eden. Ci affacciamo dall’alto guardando verso nord e intravvediamo campi coltivati dove le alte spighe di dura ondeggiano alle brezze.

Scendiamo verso il villaggio, questa sera “L’equipaggio“ desidera mangiare della carne e come è d’uso il desiderio è di un agnello. Non mi oppongo, è nelle tradizioni, una benedizione per il nostro viaggio, in perfetta armonia con il paesaggio e l’etica rurale che ci circonda, una tradizione che si ripete e moltiplica all’infinito un po’ da sempre. Qualcuno…deve essere sacrificato….Mi stringe il cuore il pensiero, non dico nulla, solo decido di portare i miei passi lontano e tornerò al campo al calare della sera evitando di assistere al sacrificio sul nostro sabbioso.. altare.

Isa mi chiama da lontano, fa segni, posso tornare. La preparazione è stata indubbiamente meticolosa: hanno cercato la legna chiamata Sanganeb, un tipo di acacia che  brucia lentamente, fa una buona brace, non fuma e non ha odore forte. Quindi hanno cercato dei sassi piccoli e stondati.
 Una volta formata la brace, è stata ricoperta dai sassi, una volta che i ciottoli sono divenuti roventi, vi hanno posato la carne che ha cucinato lentamente senza null’altro che un poco di sale. Il profumo si levava anche da un altro recipiente dove a parte, con le ossa e verdure, bolliva la shorba (zuppa). Ogni gesto ed ogni scelta, è stato eseguito con la massima cura e si può dire amorevolezza, tanto che i preparativi sono parsi una cerimonia e il consumare la cena una conseguente grande gioia. 
L’inizio è il principio: la ricerca della legna. Già in questo vi è fascino, quanto l’incanto che imprigiona gli occhi tra le fiamme del focolare. Ogni ingrediente viene preso, lavato, con acqua così preziosa, tagliato con la massima cura e diventa più raro. Intanto che la fame ti sprofonda , l’attesa ammalia i tuoi occhi. Alla fine ogni boccone è una fragranza eccellente, il condividere un piacere, una calma rigenerante, l’ascoltare un incantesimo. Nell’alternarsi del prendere il boccone dal piatto di portata, nessuno si fa avanti con ingordigia, il turno è naturale e fare una pausa nell’attesa di un racconto, dell’epilogo di una vicenda, nell’ascolto della parola è quasi più importante. Alla fine tra racconti e storie, vi è un mondo di convitati, tra veri, apparenti ed ombre e la scenografia è completa.
Per questa festa del palato non occorrono ingredienti sopraffini, un piatto di fave può divenire una leccornia, il condimento è il tempo e il profumo della legna. E mangiare da un piatto unico è un condividere profondo. 
Quanto ci siamo allontanati da tutto questo… anche se la vita dei naviganti per mare forse è ancora un compromesso.

Ho fatto ridere tutti. Ho dormito con la mano sulla macchina fotografica aspettando la volpe. Un soprassalto e l’ho imbracciata intorpidita dal sonno al sentire rumorie e scartoccii, ho scattato un po’ alla cieca, qualche scatto vergognoso col flesh della serie: a tutti i costi. Ed ho ottenuto un perfetto primo piano della schiena di Mohamed che si alza per la preghiera, prima delle prime luci. 
La volpe non è tornata.

 continua...ancora




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