L’unico mezzo disponibile per proseguire, era un camion “personalizzato” e un autista, pratico locale, che di mestiere abitualmente girava fra i villaggi, trasportando di tutto avanti e indietro tra P.Sudan, il Nord e le montagne.

Eravamo ben lontani dal confine con l’Egitto, dal Wadi Alaqui e da Bernice, ma chissà, magari con un po’ di fortuna, avrei potuto trovare qualcosa. A casa di Isa si erano radunati diversi vicini, qualche anziano, e tutti coinvolti discutevano animatamente. Impossibile per me comprendere alcuna parola della lingua Beja, spiavo i volti, le espressioni e osservavo gli ampi gesti delle braccia sembravano dire: sono un po’ dovunque. Un rassicurante Ketir, ketir, tanti, tanti, sembrava indicare che ero sulla strada giusta. Chissà..

Dopo il controllo dei permessi presso un rappresentante della sicurezza giunto in motocicletta, siamo partiti prendendo di nuovo la strada asfaltata che da P.Sudan porta al confine con l’Egitto. Percorsi una sessantina di km, il camion girò bruscamente a sinistra abbandonando la strada.
All’orizzonte una grande spianata brulla con acacie, quindi le catene di montagne che si snodano parallele alla costa, nessuna pista, nessun segnale, nessun riferimento. Così saltellando, puntellati sui duri sedili e afferrati ad ogni presa dell’abitacolo, abbiamo continuato dondolando verso Ovest. Il sole era per me l’unico riferimento, verso Ovest ancora, poi verso Sud dopo la prima gola, quindi Nord, poi ancora Ovest.

Fino a che il nostro autista Mohamed fermò il lorry.
Il sole già alto splendeva senza soluzione di brezza o ombre.
A ridosso del camion, abbiamo consumato un frugale “fatar”: pomodori e cipolle, insieme dallo stesso piatto, intingendo il pane a turno.
Qui, mi hanno detto: qui. Il sole a picco appiattiva i contorni, rendendo il paesaggio uniforme, ma tra le rocce franate, tra i pendii, ho cominciato a distinguere ovunque dei resti: mole usate per ridurre in polvere il quarzo, costruzioni diroccate, buchi che conducevano a gallerie dove erano state individuate vene di quarzo aurifero. In tutto simili alle foto del libro.... La terra era aspra, bruna, sotto il sole luccicava…. Dopo aver curiosato un po’, salendo e scendendo, grattando con un coltellino ogni pietra rosata e bianca, residuo delle lavorazioni, abbiamo ripreso il cammino.

Il camion svoltò bruscamente verso destra in una piccola valle, e un profumo di gebena, ci colse di sorpresa. Sotto l’unica acacia, su una stuoia, erano radunati degli uomini. Dei cercatori d’oro. Durante la colazione quel pomodoro era sembrato saporito come non mai, così quel caffè inaspettato è sembrato frutto di una magia.

Pareva ci aspettassero, proprio noi, nel mezzo del nulla con tempismo perfetto. Si trovavano li da qualche giorno, stavano sotto quei rami brulli in cerca di sollievo dal sole sempre più spietato, sarebbero rimasti li ancora una decina di giorni. Stavano cercando l’oro sulle pendici di un dirupo alle nostre spalle, dal basso si intravvedevano gli ingressi delle gallerie in cima.


Erano segni primitivi, semplici: rappresentavano dromedari, buoi, o ibex. I buoi e gli ibex, sono sicuramente da tempo assenti da quelle terre bruciate, il massimo che è dato incontrare, sono pecore e capre o dromedari brucanti radi ciuffi verdi o cespugli qua e la.
I disegni, silenti come le rocce, come quel cielo terso e perfettamente azzurro, erano comunque affascinanti. L’autista ed Isa mi scrutavano soddisfatti, la loro missione era compiuta, io avevo chiesto e loro avevano trovato. Sono situazioni improponibili a chiunque, tra il caldo, il disagio, le distanze, le ossa rotte per gli scossoni.
Ma lo spazio, le sparute capanne, gli incontri essenziali, le chiacchiere, stretti in un unico cono d’ombra, le tracce di cammini e passaggi di genti , le tombe piccole e grandi nelle aperture delle valli, sulle pendici, in fronte alle pianure, l’andare, mentre passato e presente erano un miraggio di nostalgie, specchio di un inquietudine, tutto, era la mia meraviglia. La percezione di un tempo dilatato come immemorabile. Quelle pietre e quei radi disegni, erano piuttosto una scusa, nessuno mi avrebbe portato in giro così, poiché è difficile o impossibile fare nulla senza una ragione o un obbiettivo preciso.

Una comunione di persone fino a ieri

Occhi incantati sulle fiamme, un piacevole vuoto di stomaco, la consapevolezza di poterlo soddisfare, l’aria subito fresca della sera, il sollievo dalla calura, il silenzio totale, infinito, perfetto. Quasi potessi respirare l’intero cielo e la via lattea era così chiara da sembrare una infinita cometa.
Quella minestra, colore di quella terra, resterà per sempre nei miei ricordi, quasi fosse il succo saporito della giornata, minestra di lenticchie, cremosa, profumata, calda, ristoratrice dopo una giornata veramente faticosa.
A turno abbiamo intinto un pezzo di pane a modo di cucchiaio, fino in fondo, all’ultimo velo attorno le pareti della pentola. Intanto sulla brace scaldava il caffè. Piccante, speziato, forte e dolce. Bevuto in tazzine in numero dispari, poichè se accetti la seconda devi bere la terza, e così via.
L’acqua nelle bottiglie diveniva lentamente deliziosa, cominciò a rinfrescare e prendere sapore, piuttosto dell’acqua tiepida del giorno che sembrava non togliere mai la sete.
Infilata nel sacco a pelo fino al naso, ho sbirciato il cielo, sembrava una giostra.
Ogni tanto durante tutta la notte, ho aperto gli occhi per vederlo ancora scorrere, ancora meraviglie.
E l’alba.
L’ho aspettata in piedi di fronte
ad un picco.
Il sole vi è salito in cima, tingendo il cielo prima teneramente e poi incendiandolo d’arancio, poi ha fatto capolino e la luce in un attimo ha inondato la valle fino ai miei piedi come un fiume in piena.
Ancora una giornata di wadi in wadi, di tomba in tomba, cercando e intanto avvicinando verso Sud Est, di valle in valle in direzione del ritorno.

Il mare.
Fino ad arrivare a sera al villaggio di Isa.
E tornare al mare fu lo stesso che tornare a casa.

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