Il desiderio di partire alle volte ti afferra ed è
incontenibile. Un’inquietudine, un’insofferenza, un vuoto da colmare.
Urge solitudine,
silenzio,
risposte.
Ed andare diventa inevitabile.
Ed andare diventa inevitabile.
Casualmente avevo letto una relazione di un viaggio intrapreso da due studiosi, ed ecco l’occasione per una breve esplorazione via terra.
Krzysztof Pluskota, archeologo polacco, e Arita Baaijens,
scrittrice e viaggiatrice tedesca avevano comprato, nel 1997, 3 dromedari
ed avevano cominciato la loro esplorazione partendo da ed-Damer sul Nilo
, 220km a nord di Khartoum. Obbiettivo: raggiungere il Villaggio di Mohamed
Qol sul Mare Rosso. Desideravano attraversare zone normalmente non
percorribili con veicoli e incontrare nomadi. La distanza era di 530 km circa
che divennero in realtà 900, dovendo aggirare montagne e inserire
nell’itinerario i pozzi per rifornirsi d’acqua. Durante il loro peregrinare
scoprirono in una valle, un wadi, casualmente, un gran numero di graffiti in
un’area chiamata Nurajet, nelle vicinanze della montagna chiamata Magardi.
Le foto
dell’articolo che avevo trovato non erano un gran che, in bianco e nero, ma la
montagna sembrava ugualmente molto suggestiva: si ergeva e dominava
solitaria, totemica in un grande spazio aperto. Forse Magardi non era poi così lontana. La rintracciai prendendo
le coordinate GPS al computer attraverso l’immagine satellitare. Un piccolo
punto che a mano a mano ingrandito, diventava sempre più nero, inaccessibile e
misterioso.Sembrava chiamasse come un eco. Individuai i 2 pozzi davanti alla
montagna sul versante Nord. Tutto il resto venne da solo come anelli di catena:
inviai a Dungonab ad Isa, il mio amico beja, la foto della montagna e di alcuni
graffiti, perché raccogliesse notizie, soprattutto se qualcuno vi fosse
passato. In un paio di giorni la risposta: Mohammed, autista di camion, la
conosceva bene. Quindi fissammo un appuntamento per domenica sera 17 febbraio,
a Dungonab. Il villaggio si trova a 150 km circa da P.Sudan, così intanto
mi sarei portata un pezzo avanti verso Nord.
Isa mi avrebbe ospitato senza
difficoltà nella piccola casa in legno in riva al mare.
Il camion doveva avere
il pieno di nafta e qualche bidone di riserva, un paio di bidoni d’acqua, io
avrei portato le provviste. All’alba del lunedì avremmo caricato viveri e
coperte e saremmo partiti.
Così è stato.
Marsa Kor Shin'ab |
In un acquarello monotono e allo stesso tempo ricco di
sfumature si susseguivano pareti brune, nere, rosse e dorate, costoni di
pallida sabbia, cumuli, franate.
Mano a mano che il sole saliva pareva tutto
brillare e sbiancarsi, la lontananza dietro ai profili era perfettamente
turchese, il cielo terso di un azzurro pallido purissimo. Le valli tra le rupi,
tutte uguali e in qualche modo differenti, erano punteggiate di acacie
che via via si facevano più grandi, alte e svettanti, con larghi tronchi forti
e bruni, come ombrelli nel sole accecante, dalla trama fitta e delicata,
proiettavano uniche rade ombre rotonde.
Per la prima volta ho visto un grande
avvoltoio, ma l’autista per timore di insabbiarsi, non si volle fermare e
proseguimmo in direzione opposta al suo volo.
Dopo 7 ore di scossoni è apparso all’orizzonte il picco
solitario e familiare che aspettavo.
Dopo un’altra ora il camion ha risalito un costone ripido e si è affacciato all’improvviso su di una valletta piena di fitte capanne di stuoie racchiuse come in un cucchiaio.
Dopo un’altra manciata di minuti, ero muta davanti
al pozzo: il pozzo di Bir Nurajet.
Come avessi corso per tutte quelle ore sfiorando tutto e
niente, ero giunta.
Ed ero immobile li, calma nel silenzio perfetto.
Il silenzio, un silenzio che è un ronzio nelle orecchie e
tanto più si fa silenzio, tanto più ti ascolti.
Nessun odore, l’aria secca asciutta e bruciante.
Ascolta
I graffiti di Nurajet
"il pomodoro..." parte seconda
Ecco il
pozzo di Nurajet. Sono le tre del pomeriggio, lentamente la luce si
ammorbidisce e si fa meno abbagliante, svelando nuove sfumature e contrasti. I
dromedari che pascolano liberi intorno alla montagna di Magardi, vedendo figure
umane accanto al pozzo, si avvicinano assetati.
Aggiriamo la
montagna sul lato Sud, in cerca di un posto dove fermarci per la notte. Intanto
che Mohamed, l’autista, prepara le stuoie e il fuoco di legna, facciamo un
primo sopraluogo nel Wadi a Sud ovest della valle.
Il sole tramonta
di fronte a noi, siamo in controluce, le ombre sulle pendici che stiamo
percorrendo via via ingrandiscono mentre Isa, come una gazzella, s’inerpica
sempre un passo avanti, anche lui è entusiasta. Risuona il suo eco: ena!
Cristina, giai giai ! Vieni vieni, qui e qui….
I graffiti sono numerosi, ogni
masso ha il suo ornamento. Le pendici della montagna sono franose, molte rocce
si sono distaccate e scivolate a valle, sicuramente il paesaggio è sconvolto da
quello originario. Rimandiamo la nostra passeggiata al mattino del giorno dopo
con luce favorevole e torniamo al camion. La sabbia è calda, pulita, e l’aria
sta già rinfrescando, la notte sarà fredda. Isa comincia a preparare la nostra
cena, nella pentola sulla brace di legna d’acacia soffrigge la cipolla per una
zuppa di lenticchie. Una volta pronta la rovescia nel grande piatto comune ed
intingiamo a turno il pane, gustando ogni boccone dal sapore ineguagliato
dell’essere dove siamo, di avere qualcosa di caldo per fronteggiare fame,
stanchezza e freddo, mentre le montagne si elevano nella notte. Il coro dei
grilli è diventato il silenzio, tanto sonoro e costante che alla fine non lo
sento più.
La luna rischiara
il deserto di sabbia attorno a noi fino alle una lasciando luogo, al suo
declino, ad una coperta di stelle. Sono così fitte e splendenti da poterle
toccare. Ogni tanto mi sveglio, completamente rappresa nel sacco a pelo, mi
affaccio ed apro gli occhi: la bellezza della volta da vertigine e la terra
pare un disco roteante .
Un richiamo di
dromedario, uno sbuffo di vento tra i cespugli scandiscono le ore del buio...
Alla mattina le tracce della volpe arrivano alla brace del nostro fuoco spento.
Mohamed dice di averla vista verso le quattro aggirarsi tra le nostre cose.
Il battere del pestello
nel mortaio annuncia, con i preparativi del caffè, l’alba . I chicchi vengono
prima abbrustoliti, poi pestati, poi messi al fuoco nel panciuto recipiente di
latta. Presto sale il profumo. C’è anche del the e dei biscotti secchi. La luce
è ancora tenue e siamo già in cammino. Magardi si staglia contro il cielo, nel
paesaggio della grande valle è una presenza imperativa e severa, da
respiro al passato, induce l’immaginazione e provoca visioni. Siamo
perfettamente pronti ad accogliere emozioni.
ingresso del Wadi "bab Sawakin" |
dell’acqua, ora tutto asciutto e secco. Entriamo alla porta di roccia che abbiamo battezzato per la sua sagoma bab Sawakin, in tutto simile alla porta della cittadina a Sud di P.Sudan.
Cominciamo ad
arrampicarci fra le rocce. Appaiono mandrie di bufali dalle lunghissime corna,
singoli fieri maschi e femmine fertili caratterizzate dalle grandi mammelle,
dromedari e struzzi. Sono innumerevoli, a volte nascosti o raggiungibili con
difficoltà, abitano senza dubbio la montagna. Gli stili sono diversi, alcuni
sono abbozzati, grezzi o primitivi, altri sono rifiniti, bellissimi, eleganti .
Alcuni sono sovrapposti in epoche diverse. Cerchiamo figure umane che troviamo
a volte sul dorso di un dromedario, attaccati alla coda al seguito di una
mandria o in atteggiamento di combattimento. Perlustriamo il costone più a sud,
poi quello di fronte, anch’esso ornato anche se i graffiti qui sono più radi.
Alcune tombe mussulmane su un rilievo in fondo al wadi, rivolte a levante,
dominano la vallata. Non ho quasi tempo di ascoltare l’emozione tanto sono
contenta, mi lascio fluire con ciò che ho attorno, seguo il ciclo del sole e mi
faccio occhi e sensi abbracciata alla macchina fotografica, il cavalletto a
monopiede diventa il mio bastone da cammino.
Verso mezzogiorno
, ci rifugiamo all’ombra del lorry nel nostro piccolo accampamento. Trovo
pronto per me un recipiente col becco con l’acqua fresca per la doccia. Sembra
impossibile, ma è vero: nel caldo torrido dell’acqua fresca. Il serbatoio è
sotto la pancia del camion, la notte è stata fredda e la temperatura si è mantenuta.
Isa affetta
carote, pomodori, cipolla e formaggio nella ciotola comune. Con fare prezioso
aggiunge dell’olio di oliva per un’insalata. Gustiamo un boccone dopo l’altro
intingendo il pane, lentamente, chiacchierando, un po’ in arabo, un pò in beja,
un po’ a gesti della nostra mattina. Mai altro pomodoro potrà eguagliare questo
sapore.
La valle misteriosa
La valle misteriosa
"la volpe", parte terza......
Il nuovo mattino
porta con se inattese sorprese. Ci dirigiamo più a nord del nostro primo wadi
dei graffiti. Scorgiamo un passaggio tra le rocce che pare un ingresso ed
accediamo ad un avvallamento protetto. L’avevo intravvisto anche il pomeriggio
precedente, inondato di sole in raggi radenti, mi era sembrata una conca d’oro.
Oggi la luce è ben diffusa, qualche acacia, una quasi illusione di verde in fili
d’erba e foglioline, segno di piogge non lontane. Pare un anfiteatro naturale, sarà lunga duecento metri, le
rocce che limitano inaccessibili il lato sud, per un arco quasi di 180°, sono
tutte ornate da grandi mandrie. I graffiti sono ovunque. Rivolgendo lo sguardo al passaggio d’ingresso
appare di fronte, incombente più che mai allusiva la montagna. Guardo i graffiti…….torno
con lo sguardo a Magardi…. Sovrasta, simbolica: emerge dalla terra
come da una ferita, si eleva dominando la valle, probabile allegoria di
fertilità e abbondanza. La conca è veramente ben protetta e a fronte di Magardi:
è così ben difendibile, leggermente sopraelevata, immune dalle inondazioni durante
le piogge, che non posso non sentire una certa sacralità sospesa. Una pausa e
un’attesa. Non sono in grado di determinare se possa essere la base di un
insediamento, oppure un luogo esclusivamente mistico. Ma viene inevitabile di
camminare cautamente, con passi leggeri, gli occhi bassi tra le schegge di
pietra e i ciottoli colorati, perché siamo sicuri di camminare sul passato e
sorge il dubbio che a scavare si scoprirebbe altra storia.
Dietro uno
sperone si apre un passaggio quasi una via di fuga, s’insinua fra le gole per
un altrove.
Si respira una atmosfera rigogliosa, di una valle fertile dai pascoli
verdeggianti, un luogo fortunato da tempo immemorabile. Anche oggi, che l’inaridimento
e la desertificazione l’ha stretta d’assedio, fa pensare ad un piccolo eden. Ci
affacciamo dall’alto guardando verso nord e intravvediamo campi coltivati dove
le alte spighe di dura ondeggiano alle brezze.
Scendiamo verso
il villaggio, questa sera “L’equipaggio“ desidera mangiare della carne e come è
d’uso il desiderio è di un agnello. Non mi oppongo, è nelle tradizioni, una
benedizione per il nostro viaggio, in perfetta armonia con il paesaggio e l’etica
rurale che ci circonda, una tradizione che si ripete e moltiplica all’infinito
un po’ da sempre. Qualcuno…deve essere sacrificato….Mi stringe il cuore il
pensiero, non dico nulla, solo decido di portare i miei passi lontano e
tornerò al campo al calare della sera evitando di assistere al sacrificio sul
nostro sabbioso.. altare.
Isa mi chiama da
lontano, fa segni, posso tornare. La preparazione è stata indubbiamente
meticolosa: hanno cercato la legna chiamata Sanganeb, un tipo di acacia che brucia lentamente, fa una buona brace, non
fuma e non ha odore forte. Quindi hanno cercato dei sassi piccoli e stondati.
Una volta formata la brace, è stata ricoperta dai sassi, una volta che i ciottoli
sono divenuti roventi, vi hanno posato la carne che ha cucinato lentamente
senza null’altro che un poco di sale. Il profumo si levava anche da un altro
recipiente dove a parte, con le ossa e verdure, bolliva la shorba (zuppa). Ogni
gesto ed ogni scelta, è stato eseguito con la massima cura e si può dire
amorevolezza, tanto che i preparativi sono parsi una cerimonia e il consumare
la cena una conseguente grande gioia.
L’inizio è il principio: la ricerca della
legna. Già in questo vi è fascino, quanto l’incanto che
imprigiona gli occhi tra le fiamme del focolare. Ogni ingrediente viene preso,
lavato, con acqua così preziosa, tagliato con la massima cura e diventa più raro. Intanto che la fame ti
sprofonda , l’attesa ammalia i tuoi occhi. Alla fine ogni boccone è una fragranza eccellente,
il condividere un piacere, una calma rigenerante, l’ascoltare un incantesimo.
Nell’alternarsi del prendere il boccone dal piatto di portata, nessuno si fa
avanti con ingordigia, il turno è naturale e fare una pausa nell’attesa di un
racconto, dell’epilogo di una vicenda, nell’ascolto della parola è quasi più
importante. Alla fine tra racconti e storie, vi è un mondo di convitati, tra veri, apparenti ed ombre e la
scenografia è completa.
Per questa festa del palato non occorrono ingredienti sopraffini,
un piatto di fave può divenire una leccornia, il condimento è il tempo e il
profumo della legna. E mangiare da un piatto unico è un condividere profondo.
Quanto
ci siamo allontanati da tutto questo… anche se la vita dei naviganti per mare
forse è ancora un compromesso.
Ho fatto ridere
tutti. Ho dormito con la mano sulla macchina fotografica aspettando la volpe.
Un soprassalto e l’ho imbracciata intorpidita dal sonno al sentire rumorie e
scartoccii, ho scattato un po’ alla cieca, qualche scatto vergognoso col flesh della
serie: a tutti i costi. Ed ho ottenuto un perfetto primo piano della schiena di Mohamed che
si alza per la preghiera, prima delle prime luci.
La volpe non è tornata.
La volpe non è tornata.
continua...ancora
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